venerdì 27 gennaio 2012

PARAFILIE GIURIDICHE






Ogni campo ha i suoi feticisti. Ho visto nerd passare giorni interi davanti il pc, intimamente attratti dai colori fluo dello schermo. Ho assistito alle crisi di astinenza delle più agguerrite fashion-addicted e alle maratone acquisti di 36 ore no-stop sulla superficie quadra di 240 km. Ho sentito matematici parlare dell’integrale di Lebesgue come di un caro parente emigrato in Argentina. E di chi, prima di andare a dormire, per puro sfoggio mnemonico ripeteva, con dimostrazione, il teorema di Schwartz. Ingegneri andare in pellegrinaggio nella dimora infantile di Einstein, muniti di santini di Fermi, Bohr e Richter, che non si sa mai. Pseudo politicanti in erba mostrare desiderio sessuale per la lunga, bianca barba di Marx e per gli occhi malandrini del Che. Politicanti, meno in erba, ma egualmente pseudo, ricevere chiamate tra le note dell’Internazionale, nella meglio riuscita versione russa.
I giuristi, però, devo ammettere, si contendono lo scettro, insieme ai letterati sotto effetto di stupefacenti, dei più talentuosi feticisti di tutte le categorie in gara. Il perché è evidente. Il giurista, per definizione, agisce in lucidità. La cocaina dei principi del foro è un vecchio retaggio yuppy anni ‘80, una trovata degli sceneggiatori di American Psycho, per intenderci. In realtà, il giurista degli anni 2012 si fa di Bianca, di Alpa, di Cerulli Irelli, di Giannini, di Antolisei, di Luiso, di Tonini. I meno profani del settore sanno di cosa parlo. C’è perfino la storia di quel povero specializzando che, nella preparazione del concorso della vita, il suo cazzutissimo concorso, aveva sofferto del primo caso di scomparsa delle impronte digitali. Con le dita, correndo velocissimo sulle pagine dei manuali dei guru del settore, aveva perso la propria identità tattile. Oltre che sette delle dieci diottrie che il buon Dio gli aveva dato.
Io, personalmente, riconosco di essere stata affetta dalla sindrome di Stoccolma durante la preparazione dell’esame di Amministrativo. Il mio professore, quello che poi, alla fine, se ci penso bene, mi teneva sotto sequestro a casa, era assurto all’apice della mia personalissima top three dei migliori miti mai esistiti dai primi del ‘900 fino ad oggi, insieme a Robert Plant e a Jim Morrison prima che cominciasse a farsi di peyote. Non mi vergogno affatto a dirlo. Con i suoi libri, io ci avevo dormito, ci avevo mangiato, e in prossimità della verifica, quando l’effetto purgativo dei timori pre-esame, bussava alle porte del cuuuore, ci avevo anche fatto la cacca. Non siate inclementi, ora. 




Chi di voi non è mai andato in bagno in compagnia di un grande autore?

mercoledì 25 gennaio 2012

(VOLO SENZA RETI)







In metro. A casa. Fuori. E poi di nuovo a casa.
Incondizionatamente.
Tra chi è buono e chi lo è meno.
Mentre corre velocissimo il tempo.
Quando sulle labbra si arriccia un sorriso.












Ti penso di più.

venerdì 20 gennaio 2012

PULP






And you shine inside
and love stills my mind like the sunrise.
Dreaming light of the sunrise,
dreaming light and...



Vedo con i miei occhi i tuoi.

Il riflesso infranto
del sereno, diventato nuvole
e delle piogge, mutate in tempesta.

Solo io posso sapere cosa succede.
Solo tu sai cosa succede.

La scura grazia di fiere sanguinarie,
è qui per mangiarmi il cuore,
strapparmi a morsi le labbra,
trafiggermi lo stomaco.


Mi immergo nelle acque nere delle tue paure,
e,
con le mie braccia,
suggello
le parole che non ti ho detto.

martedì 17 gennaio 2012

SUL PERCHE’ LA STRADA DEBBA ESSERE POPOLATA DAI TRANSFORMERS






Se c’è una cosa che ho capito in più di un anno di militanza nei Tribunali, è che gli uomini di mezza età (e con mezza età, intendo, per via dell’inarrestabile allungamento della vita, quegli esemplari nati nell’intervallo tra la Rivoluzione russa e la fine della Guerra in Corea), di cravatta adornati, non sono disposti, mai, mai e poi mai a cedere il passo. Come se la Cavalleria fosse esclusivamente l’insieme delle unità militari montate a cavallo. Punto, nient’altro. No other info provided. Alla fine, se ben ci penso, è del tutto lecito credere di avere a disposizione il transito esclusivo dei corridoi, dei marciapiedi, delle strade del mondo. Camminando a testa alta, con lo sguardo tronfissimo e il naso all’insù, a cercare l’infinito. Per comodità di scrittura, li chiamerò Gli uomini che tutto sanno.
Va detto che solo pochissimi prescelti, in realtà, ignorano in toto la cognizione spaziale degli elementi circostanti. E questo è un vero peccato. Lo è perché assistere al cammino bendato dell’Uomo che tutto sa, nel luogo che non conosce è una delizia per altrettanto pochissimi gourmet del genere. 
Solitamente, l’Uomo che tutto sa, gode dell’incredibile, avviluppante, onniscienza negata al resto dei mortali. Lui lo sa, perché sa per definizione. Ed è qui che nasce il problema. Navigare in acque ignote, pone, l’Uomo che tutto sa, in una situazione incresciosa. La definizione di uomo che capisce, che intende, che vede e prevede, s’incrosta. La sua consistenza ontologica viene a mancare. Un perdita totale dell’essere. Ma l’Uomo che tutto sa questa cosa qui proprio non è disposto a confessarla. Quindi, anche se i luoghi che percorre sono a lui sconosciuti, lui li conosce, lui sa. Basta.
Ciao Uomo che tutto sa, con la tua giacca in tweed, i pantaloni a costine dè mi nonno, l’impermeabilino dell’Upim e l’ombrello di Mel Gibson in Braveheart.


Oggi non hai capito un ciufolo a sonagli. Guarda che sole che c’è, lì fuori.

venerdì 13 gennaio 2012

IL MONDO IN 5 SEMPLICISSIME FASI





Il mondo, a quanto pare, non va proprio come dovrebbe andare. C’è stato un tempo, poi, in cui percepivo queste deviazioni, le deviazioni dal mio piano ideale di mondo, come delle ingiustizie incredibili. E me ne andavo in giro per la città con le cuffiette stereo a decibel non consentiti. Mi sparavo nelle orecchie le ballate più drammatiche che il panorama rock potesse offrire, dalla seconda metà del novecento fino ai giorni nostri. Certi giorni, i migliori, il mio momento emotive toccava pendici liriche. Mi venivano in mente dei versi che nemmeno Baudelaire e Keats in studio associato, potevano scrivere. Non so perché, però, poi quei versi me li dimenticavo sempre, uscita dall’aura del poeta maledetto, entrata nell’aura maledetta di chi non è poeta. Sono ben noti ai miei compagni di viaggio questi exploit esistenziali. E’ un flusso di coscienza che si può dividere in fasi. 

Fase misantropica. E’ indubbiamente il momento migliore. Una completa estraneazione dalle circostanze ed in generale, dal genere umano. Sia chiaro, io adoro gli umani. Solo che, ogni tanto, capita di imbattermi in degli esemplari, per così dire, minori. Rappresentanti degeneri di una razza di tutto rispetto. E a me, che non piace fare distinzioni di sorta, accade una cosa in particolare. Si innesca un’inspiegabile connessione tra i buoni e i cattivi, e così tutti i buoni, insieme ai cattivi, diventano cattivi. Questa è la miccia della fase misantropica.

Fase raminga-stereo. Fatte le mie estreme considerazioni, devo camminare. In solitaria, ovviamente. Camminare, camminare, camminare. Arriverei anche ad Honolulu, se non mi dovessi fermare a fare la pipì, di tanto in tanto. Che bello è camminare. Ti ritrovi in posti fantastici, certe volte. E mi capita quasi sempre di pensare di portarci uno dei rappresentanti migliori del genere umano, che, di solito, è un mio amico, o il mio ragazzo. La fase raminga, è sostanzialmente collegata alla fase stereo, vale a dire, camminare ascoltando musica. Una combinazione troppo vincente. La sola fase stereo non renderebbe alla stessa maniera. Dovrei restare in casa e mi godrei lo spettacolo solo a metà, perdendomi le immagini che fluiscono al mio passo.

Fase meta-realtà. Nella fase meta realtà, c’è la sufficiente estraneazione per credere di poter vivere sempre così. Camminando e massacrandosi le orecchie. Non chiedetemi perché, ultimamente, non sento bene all’orecchio destro. Sta di fatto, che questa fase è la più breve, perché dura l’intervallo tra il picco esistenziale e l’impegno successivo.

Fase distopica. Ovvero, il mondo è una merda ed ora ci devo anche ritornare. “Papà, papà, non voglio ritornarci..non mi piace! Uff… non mi piace.. gnè gnè gnè..non mi piaceeeeeeeeeeeeee!”. Papà, non c’è e non mi risponde. Continuo a pestare i piedi a terra e a dire gnè gnè gnè, magari c’è una controfigura che mi caga. La fase distopica può essere caratterizzata dell’assunzione di considerevoli quantità di nutella.

Fase finale. Se tutto ha avuto il proprio regolare corso, la confluenza alla fase finale apparirà come naturale. Questa fase è neutra, o meglio, si biforca in un finale auspicato e in uno non auspicato. Il primo consiste nella pacifica accettazione dello stato dei fatti. Una sorta di raggiungimento del Nirvana delle ragioni (di vita). La fase non auspicata, invece, dà nuovo inizio all’exploit esistenziale, e dunque, alla fase misantropica.


Detto questo, inforco le cuffiette.

lunedì 9 gennaio 2012

TAR - TASSAMI




Oggi ho finalmente capito qual è il mio posto nel mondo. Cosa devo fare da grande e come devo investire il mio futuro. La necessaria premessa risiede nel fatto che oggi, proprio oggi, terminava il Christmas break, come direbbero gli Americani. Aveva fine, cioè, la mia personalissima fase di nichilismo allo stato puro. La negazione delle negazioni. L’ozio sfrenato. L’ignavia che confina con l’oblio e che ti purifica, ti sgrassa dai peccati, fino all’osso. Beh, mi sentivo sgrassata, lo confesso.
Ho cominciato a sentire che qualcosa non andava qualche mattina fa, però. Quando mi è comparso in sogno un tizio. Per dirla tutta, non mi è comparso in senso stretto. Nel massimo del mio abbaglio dormiente, mi ha telefonato un tizio del Tar, squilli di tromba, Tar Bari. Ora, so benissimo che letteralmente il Tar Bari non esiste. Ma è pur vero che esiste il Tar Puglia con sede a Bari, e questa è un’informazione che il mio subconscio ha criptato a modo suo. Più che altro, il mio subconscio voleva inviarmi almeno 3 ordini di messaggi. Messaggio n. 1: Stai per ritornare alla realtà. Messaggio n. 2: Il Tar è tuo amico. Messaggio n. 3: Anche se il Tar Bari non esiste e tu non vivi a Bari, consulta il sito del tuo Tar di fiducia. Quanto è diligente il mio subconscio. Ah, che figata. Mi sono sentita rinata. Che sogno, che apparizione, che messaggio.

Riprendo il filo del discorso. Spoiler: non ho deciso di fare la chiromante.

domenica 8 gennaio 2012

LE IRRIMEDIABILI DECISIONI DELLA DOMENICA





Stamattina avevo deciso di di mettere a posto il mio guardaroba. Di dare una fissa dimora ad una serie di maglioncini, t-shirts e gonnelline di cotone, ormai apolidi. Nel farlo, ho realizzato che potrei dedicare un’intera sezione dell’armadio alle fibre sintetiche. A quei finti sottogiacca stretch pensati per occultare al genere umano ciò che risiede dal collo fino all’ombelico. Un tempo li indossavo (senza la giacca, ovviamente). Se ci penso bene, per un periodo, sparutissimo, mettevo delle giacche. E’ stato poco prima di laurearmi, per andare ai ricevimenti con la mia tutor. Mi sentivo profondamente regale, nella mia giacca e camicia. E poi, stavo per entrare nel mondo dei veri professionisti. Altro che converse, pantaloni larghi e fancazzismo. Dovevo darmi un tono. Eh.
Poi, per il giorno della mia laurea non mi sono fatta mancare proprio niente. Un tailleur nero (che raccomando per l’infinita sequela di colloqui post-delirio di onnipotenza) e una camicia, anzi, no, un top con volant, vul au vent, vulè vu, di una nota griffe perugina. Fichissima. 
Per impreziosire la mia tenuta, la mamma, mossa dalla necessità di portare in tripudio il mio definitivo grado d’istruzione, aveva applicato alla giacca dei bottoni in pietra. Due enormi prismi di diamante. Avrei potuto sezionare il portone in vetro della facoltà con la punta dei bottoni. Che entrata di scena, cazzo. Le compagne di facoltà, gelose fino al midollo, avrebbero fatto carte false per replicarmi. Magari con una borsa Louis Vuitton posta a mò di trofeo nell’incavatura dell’avambraccio.
Io, però, non lo feci, per paura di non poter discutere la mia teoria, davanti ai dinosauri disposti a ferro di cavallo. Mi avrebbero preso per una sorta di supereroina o chissoio, mi avrebbero strappato tutti i capelli per estrarre il mio dna, mi avrebbero tagliato le unghie malamente, mi avrebbero fatto crescere i peli delle gambe oltre il limite consentito. Insomma, sarei stata prigioniera dell’Università per un altro lustro. E questa eventualità, lo dico con schiettezza, ho proprio cercato di evitarla. Non avrei sopportato l’idea di sacrificarmi per la scienza. L’Università aveva già avuto i miei soldi, il mio sudore, le mie lacrime, il mio sangue. 
Non gli avrei dato anche il mio corpo. Assolutamente no.

venerdì 6 gennaio 2012

BUTTA IL CUORE (OLTRE L’OSTACOLO)




Sto partendo, di nuovo.

Ho maturato un senso di inutilità in un giorno e mezzo di permanenza inerte in casa. Sono stata da nonna, su una varietà piccola di sedie di legno, sdraio imbottite, divani dai braccioli duri. Ho passato un bel pomeriggio, non posso lamentarmi. Facendo attenzione che il fuoco non si spegnesse, sgranocchiando noci, olive e pezzi già mangiucchiati di panettone. Bevendo il caffè più buono che abbia mai provato. A pensarci bene, quel gusto non lo dà la miscela. E’ il pavimento in cotto, il camino sempre acceso, gli adesivi di Natale sui vetri, che gli danno quel sapore. Per un po’ ho pensato che non avrei voluto andare via. Avrei dovuto aspettare il termine delle mie vacanze, che non sarebbe stato onesto andare via, così. Se il giorno iniziasse alle 4 o alle 5 di pomeriggio, lì, seduta davanti il camino, sgranocchiando noci e  bevendo caffè con i nonni, sarei rimasta. Certo che sarei rimasta. E poi avrei cenato con loro, a mangiare cose buonissime.
La verità è che, la mattina, nel mio paese, è davvero insostenibile. Accade che forze sconosciute alle moltitudini si concentrino in fiotti di vapore, che poi, raffreddandosi, vanno ad infestare tutta la valle di bianco. Un bianco pesante e umido, che ti entra nelle ossa, ti fa sentire vecchio e, a tratti, inutile. 
Il lasso di tempo che intercorre tra le 11 (ore in cui, durante le “vacanze” mi sveglio, o almeno avrei dovuto) e le 14 (orario in cui, durante le “vacanze” mangio, o almeno avrei dovuto) è in assoluto il peggiore. Lo sarebbe anche il successivo, se non ci fosse nonna.
Sta di fatto, poi, che queste notti a casa mi hanno dato un sacco di rogne oniriche. Oniriche, esatto. Ho sognato di graffiare il volto di sconosciuti con le mie unghiette magre, di partecipare indirettamente al contrabbando di borse di seconda mano, di scappare come un’improvvisata latitante, e di bere in un caffè-pub-enoteca vicino casa, che, però, non esiste. 
Da queste avventure ho capito che il crimine non fa proprio per me. No, no. Io sono una da cioccolata calda quando fa freddo e di thè alla pesca all’ombra di 30 gradi. Magari, ogni tanto, un bicchierino di vino, un cicchetto di vodka alla frutta, un negroni al mercoledì. Ma non chiedetemi di correre per coprire le magagne. Sia ben chiaro, non sono una fifona. Sono una tosta, io. Semplicemente, trovo assurdo cacciarsi nei guai, sapendo di farlo, e poi cercare di scappare.
Almeno, nella maggior parte di queste terribili peripezie oniriche c’è Martino. Il mio amico. Perfino nei sogni sta con me.