Le password che utilizziamo dicono molto su di noi. Sono le prime
parole che ci vengono in mente. I numeri che crediamo di poter ricordare
sempre. Sono il disco che ci ha cambiato la vita, la moto dei quindici anni e
mezzo, il libro che abbiamo appena letto, le parole che non ci hanno detto.
Sono il film dei baci al buio, è il
giorno in cui proprio non riuscivamo a stare nelle mutande, è quando d’estate
non conta quanti gradi ci siano. I pochi di spirito segnano la propria data di
nascita, i servili azzardano il giorno del matrimonio, i singles il proprio nome al contrario. Le zitelle sulla quarantina
indicano il nome del cane, con l’iniziale maiuscola. I bimbiminkia scrivono kekkazzokkakkapuzza, ma con più k. I programmatori informatici, la targa
della propria auto (non chiedetemi perché). I dead of hunger,
il modello di auto che vorrebbero avere (e un piatto di coda alla vaccinara). I
poliziotti scrivono ACAB, i carabinieri non sanno cos’è una password. I devoti, recitano le prime
righe del Deuteronomio.
Le mie password, invece, sono lo specchio fedele del nomadismo che
affligge la mia generazione. Affermazioni nichiliste composte, cifrari
misterici, abbondanza di punteggiatura.
Le password che uso sono le domande a cui non so dare una risposta. E
mi costringo a scriverle ogni giorno. Come se avessi deciso deliberatamente mi
pormi ogni giorno un quesito, lo stesso.
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