Le persone che soffrono hanno
bisogno di solidarietà. La sofferenza, tuttavia, molto spesso, se cagionata da
questioni pseudo-relazionali ha
durate altalenanti. Un giorno, ad esempio, sono stata contentissima, ma
contentissima. Il giorno dopo no. Poi di nuovo un po’ contenta. Poi ho pianto
in accappatoio.
Questo tipo di sofferenza
necessita sempre di una certa denuncia sociale, di un vero e proprio manifesto.
Tenerla tutta per sé è praticamente impossibile, bisogna spartirla con gli
altri.
L’empatia nella sofferenza è una
cosa davvero bella. Questo accade quando chi soffre incontra un altro che
soffre e, insieme, possono anche fare l’amore. Oppure no. L’importante è che
stiano l’uno accanto all’altro, a mescolare il dolore plastificato che sembra
attanagliarli.
La felicità, invece, è una
questione tutta autocratica. Ogni goccia di felicità, quando arriva, se arriva,
magari Dio volesse, ce la autogestiamo benissimo da soli. Nel senso che la
disponibilità tipica della sofferenza sparisce, svanisce, puuuf, nel nulla. Come se non si fosse mai sofferto prima,
chiudiamo le porte del nostro microcosmo e non le apriamo, per nessuna ragione.
Ovvero, le apriamo e stiamo ad ascoltare sull’uscio, con il braccio a paletto,
a braccare il passaggio.
Le persone felici sono
insopportabili, ve lo dico dal profondo della mia sofferenza plastificata formato
famiglia.
Il fatto è che quando uno è felice basta a se stesso ed è soddisfatto.
RispondiEliminaQuando si soffre, invece, non si basta a se stessi, ma si va in cerca di altri, per partecipare il proprio dolore e farsi consolare! ...
iu filosf...
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